Cass. 27-3-2018, n. 7513
(estratto)
“E’ autorevole e condiviso, in medicina legale, l’insegnamento secondo cui “non ha più ragion d’essere l’idea che il danno biologico abbia natura meramente statica“; che “per danno biologico deve intendersi non la semplice lesione all’integrità psicofisica in sé e per sé, ma piuttosto la conseguenza del pregiudizio stesso sul modo di essere della persona (…). Il danno biologico misurato percentualmente è pertanto la menomazione all’integrità psicofisica della persona la quale esplica una incidenza negativa sulle attività ordinarie intese come aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti“.
In questo senso si espresse già quasi vent’anni fa (ma inascoltata) la Società Italiana di Medicina Legale, la quale in esito al Congresso nazionale tenuto nel 2001 definì il danno biologico espresso nella percentuale di invalidità permanente, come “la menomazione (…) all’integrità psico-fisica della persona, comprensiva degli aspetti personali dinamico-relazionali (…), espressa in termini di percentuale della menomazione dell’integrità psicofisica, comprensiva della incidenza sulle attività quotidiane comuni a tutti“.
La conclusione è che, quando un baréme medico legale suggerisce per una certa menomazione un grado di invalidità – poniamo – del 50%, questa percentuale indica che l’invalido, a causa della menomazione, sarà teoricamente in grado di svolgere la metà delle ordinarie attività che una persona sana, dello stesso sesso e della stessa età, sarebbe stata in grado di svolgere, come già ripetutamente affermato da questa Corte (Sez. 3, Sentenza n. 20630 del 13/10/2016; Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014).
5.9. Da quanto esposto derivano tre conseguenze.
5.9.1. La prima è che deve essere rettamente inteso il senso del discorrere di “danni dinamico-relazionali” (ovvero, con formula più arcaica ma più nobile, “danni alla vita di relazione”) in presenza d’una lesione della salute.
La lesione della salute risarcibile in null’altro consiste, su quel medesimo piano, che nella compromissione delle abilità della vittima nello svolgimento delle attività quotidiane tutte, nessuna esclusa: dal fare, all’essere, all’apparire.
Non, dunque, che il danno alla salute “comprenda” pregiudizi dinamico-relazionali dovrà dirsi; ma piuttosto che il danno alla salute è un danno “dinamico-relazionale”. Se non avesse conseguenze “dinamico-relazionali”, la lesione della salute non sarebbe nemmeno un danno medico-legalmente apprezzabile e giuridicamente risarcibile.
5.9.2. La seconda conseguenza è che l’incidenza d’una menomazione permanente sulle quotidiane attività “dinamico-relazionali” della vittima non è affatto un danno diverso dal danno biologico.
Una lesione della salute può avere le conseguenze dannose più diverse, ma tutte inquadrabili teoricamente in due gruppi:
– conseguenze necessariamente comuni a tutte le persone che dovessero patire quel particolare tipo di invalidità:
– conseguenze peculiari del caso concreto, che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi consimili.
Tanto le prime che le seconde conseguenze costituiscono un danno non patrimoniale; la liquidazione delle prime tuttavia presuppone la mera dimostrazione dell’esistenza dell’invalidità; la liquidazione delle seconde esige la prova concreta dell’effettivo (e maggior) pregiudizio sofferto.
Pertanto la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi attività, in conseguenza d’una lesione della salute, non esce dall’alternativa: o è una conseguenza “normale” del danno (cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica), ed allora si terrà per pagata con la liquidazione del danno biologico; o è una conseguenza peculiare, ed allora dovrà essere risarcita, adeguatamente aumentando la stima del danno biologico (c.d. “personalizzazione”: così già Sez. 3, Sentenza n. 17219 del 29.7.2014).
Dunque, le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana e sugli aspetti “dinamico-relazionali”, che sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale.
Al contrario, le conseguenze della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico.
Ma lo giustificano, si badi, non perché abbiano inciso, sic et simpliciter, su “aspetti dinamico-relazionali”: non rileva infatti quale aspetto della vita della vittima sia stato compromesso, ai fini della personalizzazione del risarcimento; rileva, invece, che quella/quelle conseguenza/e sia straordinaria e non ordinaria, perché solo in tal caso essa non sarà ricompresa nel pregiudizio espresso dal grado percentuale di invalidità permanente, consentendo al giudice di procedere alla relativa personalizzazione in sede di liquidazione (così già, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 21939 del 21/09/2017; Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014).
In applicazione di tali princìpi, questa Corte ha già stabilito che soltanto in presenza di circostanze “specifiche ed eccezionali”, tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014; Sez. 3, Sentenza n. 24471 del 18/11/2014).
5.9.3. La terza conseguenza, di natura processuale, è che le circostanze di fatto che giustificano la personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale integrano un “fatto costitutivo” della pretesa, e devono essere allegate in modo circostanziato e provate dall’attore (ovviamente con ogni mezzo di prova, e quindi anche attraverso l’allegazione del notorio, delle massime di comune esperienza e delle presunzioni semplici, come già ritenuto dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la nota sentenza pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008), senza potersi, peraltro, risolvere in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Sez. 3, Sentenza n. 24471 del 18/11/2014).
I princìpi sin qui esposti possono riassumersi, per maggior chiarezza, nel modo che segue:
1) l’ordinamento prevede e disciplina soltanto due categorie di danni: quello patrimoniale e quello non patrimoniale.
2) Il danno non patrimoniale (come quello patrimoniale) costituisce una categoria giuridicamente (anche se non fenomenologicamente) unitaria.
3) “Categoria unitaria” vuol dire che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole e ad i medesimi criteri risarcitori (artt. 1223, 1226, 2056, 2059 c.c.).
4) Nella liquidazione del danno non patrimoniale il giudice deve, da un lato, prendere in esame tutte le conseguenze dannose dell’illecito; e dall’altro evitare di attribuire nomi diversi a pregiudizi identici.
5) In sede istruttoria, il giudice deve procedere ad un articolato e approfondito accertamento, in concreto e non in astratto, dell’effettiva sussistenza dei pregiudizi affermati (o negati) dalle parti, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, opportunamente accertando in special modo se, come e quanto sia mutata la condizione della vittima rispetto alla vita condotta prima del fatto illecito; utilizzando anche, ma senza rifugiarvisi aprioristicamente, il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, e senza procedere ad alcun automatismo risarcitorio.
6) In presenza d’un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l’attribuzione d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale).
7) In presenza d’un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari. …
8) In presenza d’un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione).
9) Ove sia correttamente dedotta ed adeguatamente provata l’esistenza d’uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (come è confermato, oggi, dal testo degli artt. 138 e 139 cod. ass., così come modificati dall’art. all’articolo 1, comma 17, della legge 4 agosto 2017, n. 124, nella parte in cui, sotto l’unitaria definizione di “danno non patrimoniale”, distinguono il danno dinamico relazionale causato dalle lesioni da quello “morale”).
10) Il danno non patrimoniale non derivante da una lesione della salute, ma conseguente alla lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati, va liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso. Nell’uno come nell’altro caso, senza automatismi risarcitori e dopo accurata ed approfondita istruttoria”.
Qualche osservazione
1) Secondo l’ordinanza Rossetti il danno biologico è un danno dinamico-relazionale e, a sua volta, il danno dinamico-relazionale “in null’altro consiste che nella compromissione delle abilità della vittima nello svolgimento delle attività quotidiane tutte, nessuna esclusa: dal fare, all’essere, all’apparire“. Appare (almeno a me) difficile capire in cosa consista l‘attività dell’apparire o l’attività dell’essere la cui compromissione dà vita a un danno risarcibile. Le categorie dell’essere e dell’apparire sono ricondotte alla nozione di “attività quotidiana”? E su quali basi?
2) Il danno morale è qualificato in termini di “pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione)” Questa ricostruzione è scorretta: la sofferenza interiore ha una base organica ben definita ed è misurabile, in termini medico-legali, esattamente come la lesione fisica.
3) Rossetti, estensore dell’ordinanza n. 7513/2018, un tempo sosteneva la tesi dell’inquadramento del danno dinamico-relazionale nel danno morale, quale espressione di una medesima e unica categoria sofferenziale. Al riguardo l’autore, nel 2004, in un convegno sul tema, affermò:
- che “sarebbe pericoloso e controproducente sostenere che il danno morale costituisc(a) una sofferenza interna. Se così fosse, tale danno non potrebbe mai essere dedotto né provato in giudizio, giacché i moti dell’animo sono noti solo a chi li prova. Il risarcimento del danno morale diverrebbe così una pura e semplice sanzione, o – se si preferisce – un grazioso regalo, che il danneggiato avrebbe sempre diritto di pretendere, a prescindere da qualsiasi dimostrazione circa l’effettiva esistenza di esso”;
- di non essere affatto convinto della “distinzione tra danno morale e danno esistenziale fondata sul rilievo secondo cui chi subisce un danno morale soffre, mentre chi subisce un danno esistenziale non fa. … La sofferenza morale causata dall’illecito, infatti, è sempre una sofferenza causata da una rinuncia. Chi non può più andare a cavallo in conseguenza dell’altrui illecito subisce un danno consistente non già nella rinuncia alla cavalcata, ma nella sofferenza causata da tale rinuncia: tanto è vero che nessuno potrebbe ragionevolmente sostenere che costituisce un danno la rinuncia ad attività sgradite o spiacevoli. Ma se così è, deve concludersi che il c.d. ‘danno esistenziale’ non è che la sofferenza causata da una rinuncia, cioè un pregiudizio d’affezione, e quindi un danno morale”.
Secondo quest’impostazione il danno dinamico-relazionale ha matrice sofferenziale e, dunque, integra i connotati del danno morale, costituendo una delle sue possibili manifestazioni. In questo senso si erano espresse anche le Sezioni Unite n. 3677/2009.
Quest’impostazione è stata ribaltata con l’ordinanza n. 7513/2018, nella quale la sofferenza morale torna a scomporsi tra turbamento dell’animo e danno biologico/dinamico-relazionale.
Rossetti ha cambiato idea?
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