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Il Coronavirus ha suscitato un rinnovato interesse per i reati di epidemia dolosa (art. 438 c.p.) ed epidemia colposa (art. 452 c.p.).
Alcune Procure della Repubblica, infatti, stanno conducendo accertamenti sulle procedure adottate per prevenire il contagio da Coronavirus in alcuni ospedali.
L’ipotesi di reato – a carico di ignoti – è quella di epidemia colposa prevista dall’art. 452 c.p.
Commette il reato di epidemia colposa, ad es., colui che, consapevole di aver contratto il Coronavirus, continui a circolare liberamente diffondendo la malattia per negligenza o imprudenza, senza cioè osservare le disposizioni precauzionali imposte dal DPCM 8-3-2020.
Di seguito uno schema sulle principali caratteristiche dei due reati e l’estratto di una sentenza della Cassazione.
1. Epidemia dolosa (art. 438 c.p.)
Il delitto di epidemia, sconosciuto al codice Zanardelli, è stato introdotto dal legislatore del ‘30 in base alla considerazione che l’evoluzione scientifica ha incrementato la possibilità di procurarsi colture di germi patogeni e di diffonderli.
Il delitto di epidemia apre la serie delle norme poste a tutela dell’incolumità pubblica nel particolare settore della salute pubblica: il legislatore vuole evitare che una malattia infettiva, che abbia già interessato un certo numero di individui, ne colpisca altri, in modo da incrinare la sicurezza delle condizioni di salute della collettività.
La salute pubblica è un bene di rilevanza costituzionale (art. 32 Cost.) suscettibile di diverse interpretazioni.
Taluni autori attribuiscono al termine “salute” un significato ampio, che si identifica con l’equilibrio psico-fisico-ambientale, cioè con l’armonico equilibrio delle funzioni fisiche e mentali.
Un altro orientamento ritiene, invece, che il codice penale prenda in considerazione esclusivamente le cause che presentino una concreta attitudine a provocare una infermità o una malattia suscettibili di turbare in modo rilevante l’equilibrio anatomico-funzionale o psichico della persona.
In dottrina è discussa la natura di danno o di pericolo del delitto di epidemia.
Secondo un orientamento, la lesione della salute pubblica deve concretizzarsi in un danno effettivo consistente nella diffusione di determinate malattie. Si tratta, pertanto, di un reato di danno per la salute pubblica. È il danno che caratterizza la fattispecie, mentre il pericolo per la salute pubblica costituisce un effetto eventuale del delitto in relazione all’ulteriore capacità espansiva e diffusiva dell’epidemia.
Parte della dottrina ritiene, invece, che si tratti di un reato di pericolo concreto, che richiede una minaccia concreta per una collettività indeterminata di persone. Il numero elevato di persone colpite non viene in rilievo di per sé, bensì in quanto segno di diffusione incontenibile della malattia. È il pericolo per la pubblica incolumità, connesso alla diffusività del male, che caratterizza il delitto di epidemia. Se l’epidemia richiede la diffusività della malattia, senza tale pericolo non vi è epidemia.
Secondo la tesi preferibile, affinché la fattispecie punita dall’art. 438 c.p. possa ritenersi integrata occorre che la condotta del reato di epidemia, consistente nella diffusione dì germi patogeni, cagioni un evento definito come la manifestazione collettiva di una malattia infettiva umana che si diffonde rapidamente in uno stesso contesto di tempo in un dato territorio, colpendo un rilevante numero di persone. L’evento che ne deriva è quindi, al contempo, un evento di danno e di pericolo, costituendo la malattia (danno) come il fatto iniziale di ulteriori possibili danni (pericolo), cioè il concreto pericolo che il bene giuridico protetto dalla norma, rappresentato dall’incolumità e dalla salute pubblica, possa essere ulteriormente leso.
Il delitto di epidemia è un reato di evento a forma vincolata, in quanto il soggetto deve cagionare l’evento dell’epidemia mediante quel particolare comportamento consistente nella diffusione di germi patogeni.
La diffusione può avvenire tramite spargimento in terra, acqua, aria, ambienti e luoghi di ogni tipo, di germi patogeni idonei; liberazione di animali infetti; messa in circolazione di portatori di germi o di cose provenienti da malati; inoculazione di germi a determinati individui; scarico di rifiuti in acqua ecc.
Secondo una tesi restrittiva la norma punisce chi cagioni l’epidemia mediante diffusione di germi patogeni di cui abbia il possesso (per esempio, animali da laboratorio), mentre deve escludersi che una persona affetta da malattia contagiosa abbia il possesso dei germi che la affliggono.
Deve ritenersi, al contrario, che ai fini della diffusione non sia necessario che il soggetto agente e i germi siano entità separate, ben potendo aversi epidemia quanto l’agente sia esso stesso il vettore dei germi patogeni. Ciò significa che commettere il reato anche colui il quale, consapevole di aver contratto un virus, continui a circolare liberamente, diffondendo la malattia.
Con il termine epidemia si intende una malattia infettiva suscettibile di colpire contemporaneamente un gran numero di persone e di diffondersi ulteriormente per contagio, per poi attenuarsi dopo aver compiuto il suo corso. Epidemia, quindi, non è qualunque malattia infettiva e contagiosa, ma soltanto quella suscettibile di diffondersi nella popolazione per la facile propagazione dei suoi germi, in modo da colpire in un unico contesto temporale un elevato numero di persone.
Al riguardo la giurisprudenza ha indicato come elementi dell’epidemia:
– il carattere contagioso del morbo;
– la rapidità della diffusione e la durata del fenomeno limitata nel tempo;
– il numero elevato di persone colpite, tale da destare un notevole allarme sociale e un correlativo pericolo per un numero indeterminato e notevole di persone;
– l’estensione territoriale ampia (normalmente, regionale). È escluso, quindi, che possa integrare il delitto in esame un focolaio epidemico che si manifesti in ambiente ristretto e rimanga localizzato, come per esempio in una comunità familiare o una struttura ospedaliera.
L’epidemia riguarda esclusivamente le malattie umane e non le malattie infettive degli animali o delle piante, le quali possono eventualmente configurare il delitto di cui all’art. 500 c.p. (Diffusione di una malattia delle piante o degli animali) o il reato di danneggiamento Se, tuttavia, la diffusione delle malattie alle piante o agli animali, per la propagazione dei germi patogeni, colpisce anche le persone, determinandosi così un pericolo per la salute di un indeterminato numero di individui, sussiste il reato di epidemia.
Il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di diffondere germi patogeni, unite alla rappresentazione e volontà del contagio di un certo numero di persone.
Secondo un’opinione il dolo sarebbe caratterizzato dall’intenzione di cagionare l’epidemia, per cui l’unica forma di dolo ammissibile sarebbe quella del dolo intenzionale. Questa tesi è stata, però, respinta in quanto il dolo eventuale è perfettamente compatibile con la struttura del reato: si pensi all’ipotesi di uno sperimentatore che manipoli germi patogeni accettando il rischio di una loro diffusione epidemica.
Il reato si consuma al momento del verificarsi dell’epidemia e il tentativo è configurabile qualora si sia avuta diffusione di germi patogeni senza che sia derivata l’epidemia, o se il contagio si sia arrestato a pochi casi.
L’idoneità degli atti compiuti deve essere valutata sia in relazione alla qualità dei germi diffusi sia alle modalità della diffusione.
2. Epidemia colposa (artt. 438 e 452 c.p.)
Anche per l’epidemia colposa gli elementi costitutivi, in senso materiale, del reato sono la diffusione, la diffusibilità, l’incontrollabilità del diffondersi del male in un dato territorio e su un numero indeterminato o indeterminabile di persone. Il reato deve, perciò, escludersi se l’insorgere e lo sviluppo della malattia si esauriscano in un ambito circoscritto (ad esempio, nell’ambito di un ente ospedaliero).
Per l’epidemia colposa si deve stabilire se vi sia stata una diffusione imprudente, negligente, imperita ecc. di germi patogeni idonei a cagionare quell’epidemia realmente verificatasi.
La regola prudenziale violata può essere sociale o giuridica: per quest’ultima si può ipotizzare, ad esempio, l’inosservanza delle disposizioni per la prevenzione del Coronavirus.
Perché ci sia colpa, secondo i principi generali, oltre alla violazione della regola precauzionale occorrono:
– la prevedibilità dell’evento (l’agente, quindi, deve conoscere la qualità patogenetica dei germi);
– il superamento del rischio consentito.
Seguendo una tesi restrittiva, non incorre nel reato di epidemia colposa chiunque, in qualsiasi modo, provochi un’epidemia. come ad es. chi, sapendosi affetto da male contagioso, si mescoli alla folla pur prevedendo che infetterà altre persone. Infatti, la norma non punisce chiunque cagioni un’epidemia, ma chi la cagioni mediante la diffusione di germi patogeni di cui abbia il possesso, anche “in vivo” (animali di laboratorio), mentre deve escludersi che una persona, affetta da malattia contagiosa abbia il possesso dei germi che l’affliggono.
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Cass. pen., IV, 12-12-2017, n. 9133
Massima
In tema di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione, in quanto l’art. 438 c.p., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata incompatibile con il disposto dell’art. 40, co. 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera.
(estratto della motivazione)
Secondo l’accezione accreditata dalla scienza medica, per epidemia si intende ogni malattia infettiva o contagiosa suscettibile, per la propagazione dei suoi germi patogeni, di una rapida e imponente manifestazione in un medesimo contesto e in un dato territorio, colpendo un numero di persone tale da destare un notevole allarme sociale e un correlativo pericolo per un numero indeterminato di individui.
La nozione giuridica di epidemia è più ristretta e circoscritta rispetto all’omologo concetto elaborato in campo scientifico, in quanto il legislatore, con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni” prevista nell’art. 438 c.p., ha inteso circoscrivere la punibilità alle condotte caratterizzate da determinati percorsi causali.
La dottrina maggioritaria nonché la giurisprudenza di merito e anche di legittimità (Sez. 4, n. 2597 del 26/1/2011, Ceriello) hanno infatti sottolineato che il fatto tipico previsto nell’art. 438 c.p. è modellato secondo lo schema dell’illecito causalmente orientato, in quanto il legislatore ha previsto anche il percorso causale, con la conseguenza che il medesimo evento realizzato a seguito di un diverso percorso, difetta di tipicità.
Pertanto l’epidemia costituisce l’evento cagionato dall’azione incriminata la quale deve estrinsecarsi secondo una precisa modalità di realizzazione, ossia mediante la propagazione volontaria o colpevole di germi patogeni di cui l’agente sia in possesso.
La materialità del delitto è costituita sia da un evento di danno, rappresentato dalla concreta manifestazione, in un certo numero di persone, di una malattia eziologicamente ricollegabile a quei germi patogeni, sia da un evento di pericolo, rappresentato dall’ulteriore propagazione della stessa malattia a causa della capacità di quei germi patogeni di trasmettersi ad altri individui anche senza l’intervento dell’autore della originaria diffusione.
La norma evoca, all’evidenza, una condotta commissiva a forma vincolata di per sé incompatibile con il disposto dell’art. 40, co. 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera o a quelle la cui realizzazione prescinde dalla necessità che la condotta presenti determinati requisiti modali.
Un indirizzo dottrinario del tutto minoritario inquadra la fattispecie di cui all’art. 438 c.p. e del correlato art. 452, co. 2, c.p., nella categoria dei c.d. “reati a mezzo vincolato”.
Secondo tale opzione ermeneutica il legislatore, con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, avrebbe inteso solo demarcare il tipo di evento rilevante, ovvero le malattie infettive, e non già indicare una puntuale tipologia di condotta.
Detta ricostruzione interpretativa risulta riduttiva in quanto finisce per disapplicare la predetta locuzione, che rappresenta uno degli elementi essenziali della fattispecie; né può fondatamente ritenersi che l’espressione contenuta nell’art. 438 c.p. sia meramente pleonastica o addirittura tautologica.
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