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L’abusivismo edilizio è un fenomeno illegale consistente nella realizzazione di edifici e manufatti edilizi in mancanza degli atti abilitativi richiesti dalla legge (licenza, concessione o permesso di costruire) o in difformità da essi.
L’immobile abusivo non è incommerciabile.
La disciplina codicistica sulla vendita (art. 1350; artt. 1470 ss.; artt. 1537 ss. c.c.) è integrata, infatti, dalla legislazione speciale. In particolare, gli artt. 17 e 40 L. 47/1985 e il successivo art. 46, D.P.R. 380/2001, comminano la nullità degli atti tra vivi, con i quali vengono trasferiti i diritti reali su immobili, ove essi non contengano la dichiarazione dell’alienante da cui risultino gli estremi della concessione edilizia dell’immobile, ovvero degli estremi della domanda di concessione in sanatoria.
Dunque sarebbe sufficiente, ai fini della commerciabilità dell’immobile abusivo, il requisito formale della dichiarazione urbanistica dell’alienante.
Un orientamento della giurisprudenza sostiene però che la nullità prevista dalle norme appena citate avrebbe natura sostanziale e, pertanto, deriverebbe non soltanto dall’assenza delle dichiarazioni del venditore ma anche dalla difformità tra il bene venduto ed il progetto assentito, pure in presenza di detta dichiarazione (v. Cass. ord. 31-7-2018, n. 20061, che ha rimesso la questione alle Sezioni unite).
Le Sezioni Unite (sentenza n. 8230 del 22/03/2019) a risoluzione di contrasto, hanno affermato che la nullità comminata dalle norme in questione va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art. 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendosi intendere, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve essere riferibile, proprio, a quell’immobile.
In presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile il contratto è valido a prescindere al profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato: ciò per la decisiva ragione, secondo la Corte, che profilo della conformità esula dal perimetro della nullità, in quanto non è previsto dalle disposizioni che la comminano, tenuto conto, altresì, del principio generale secondo cui le norme che, ponendo limiti all’autonomia privata e divieti alla libera circolazione dei beni, sanciscono la nullità degli atti debbono ritenersi di stretta interpretazione e non possono essere applicate, estensivamente o per analogia, ad ipotesi diverse da quelle espressamente previste.
La tesi delle Sezioni Unite, sostiene ancora la Corte, non è dissonante rispetto alla finalità di contrasto al fenomeno dell’abusivismo edilizio che è meritevole di massima considerazione.
Infatti, per effetto della dichiarazione dell’alienante da cui risultino gli estremi della concessione edilizia (che, si ribadisce, deve esistere ed essere veritiera) l’acquirente, utilizzando la diligenza dovuta è messo in condizione di svolgere le indagini ritenute più opportune per appurare la regolarità urbanistica del bene, e così valutare la convenienza dell’affare, anche, in riferimento ad eventuale mancata rispondenza della costruzione al titolo dichiarato. In tale valutazione, potrà, ben a ragione, incidere la sanzione della demolizione che l’art. 31, co. 2 e 3, del d. P.R. n. 380 del 2001 prevede nei confronti sia del costruttore che del proprietario in caso d’interventi edilizi eseguiti non solo in assenza di permesso, ma anche in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali. Tale sanzione ha, infatti, carattere reale e non incontra limiti per il decorso del tempo, in quanto l’abuso costituisce un illecito permanente, e l’eventuale inerzia dell’Amministrazione non è idonea né a sanarlo o ad ingenerare aspettative giuridicamente qualificate, né a privarla del potere di adottare l’ordine di demolizione, nonostante il decorso del tempo.
In conclusione l’interesse superindividuale ad un ordinato assetto di territorio resta salvaguardato dalle sanzioni approntate dall’ordinamento e, nel caso degli abusi più gravi, dal provvedimento ripristinatorio della demolizione.
Tale approdo ermeneutico, in conclusione, secondo la Corte, è quello che meglio rappresenta la sintesi tra le esigenze di tutela dell’acquirente e quelle di contrasto dell’abusivismo: in ipotesi di difformità sostanziale tra titolo abilitativo enunciato nell’atto e costruzione, l’acquirente non sarà esposto all’azione di nullità, con conseguente perdita di proprietà dell’immobile ed onere di provvedere al recupero di quanto pagato, ma, ricorrendone i presupposti, potrà soggiacere alle sanzioni previste a tutela dell’interesse generale connesso alle prescrizioni della disciplina urbanistica.
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