Riforma della prescrizione: è la terapia più efficace e adeguata per curare l’ammalato? Nel nostro Paese la giustizia penale continua ad essere al centro del dibattito non solo politico, ma anche sociale e culturale: si avverte da più parti la necessità di una riforma di tale settore, necessità nata dalla convinzione -giammai peregrina- che il processo penale in Italia non funziona benissimo, non gode di ottima salute. In tale ottica il legislatore recentemente ha inteso intervenire su un istituto ritenuto fondamentale per il buon funzionamento del processo penale: la prescrizione.
Addirittura tale istituto è stato oggetto di due interventi normativi nel giro di due soli anni: la cd. riforma Orlando del 2017 e la cd. riforma Bonafede del 2019.
In particolare, all’inizio di questo anno è entrata in vigore la Legge n. 3/2019, la cd. riforma Bonafede, che volendo, tra le altre cose, riformare tale istituto, prevede, in sintesi, il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio.
Per discutere in modo laico su tale riforma va fatta una premessa sull’istituto della prescrizione, su come funzionava prima dell’entrata in vigore della suddetta legge e su come essa è regolamentata oggi; e poi fare alcune riflessioni critiche per affrontare efficacemente il problema e, se possibile, avviarlo a soluzione; e, soprattutto, tentare di dare una risposta alla domanda (usando una metafora): la modifica della prescrizione è la medicina più efficace (e direi, adeguata e sufficiente) per curare e guarire l’ammalato (il processo penale)?
L’effetto del tempo sulle vicende giuridiche
Tanto premesso, il nostro ordinamento, come quello di altri Stati, ricollega determinati effetti giuridici al trascorrere del tempo: se dalla commissione di un fatto illecito trascorre un certo lasso di tempo (variabile da reato a reato) senza l’emissione di una sentenza di condanna irrevocabile (almeno fino al 31/12/19), il reato deve ritenersi prescritto e non potrà più essere irrogata la sanzione prevista. La prescrizione è, quindi, una causa estintiva del reato.
Si suol dire che con il passare del tempo dalla commissione del reato viene meno l’interesse pubblico alla repressione degli illeciti, e quindi all’irrogazione della pena, si affievolisce il diritto statuale di punire un determinato fatto-reato: è stato autorevolmente sostenuto che con il tempo nasce un diritto all’oblio da parte dell’autore del reato.
Il tempo necessario affinché il reato si prescriva è legato alla gravità del reato stesso e, quindi, alla sanzione astrattamente irrogabile, di norma pari al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e, comunque, non inferiore a sei anni per i delitti e a quattro anni per le contravvenzioni. Per alcuni delitti ritenuti di particolare allarme sociale (ad esempio, l’associazione di tipo mafioso, l’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, l’omicidio stradale, la violenza sessuale) il tempo necessario a prescrivere è raddoppiato.
Ci sono, poi, reati imprescrittibili: sono i reati puniti con l’ergastolo (sia come pena principale, che per effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti, si pensi all’omicidio premeditato); per questi delitti non si determina mai il tempo dell’oblio: il danno è troppo grave, la ferita è tanto dolorosa da non poter essere cicatrizzata e guarita dal passare del tempo.
Da quando inizia a decorrere il termine?
Il termine di prescrizione inizia di norma a decorre dal giorno in cui il reato è commesso (c.d. dies a quo).
Ma vanno distinte due ipotesi a seconda se il procedimento penale è stato aperto o meno.
- La prima ipotesi si ha nei casi in cui il procedimento penale non è ancora iniziato: quando il termine di prescrizione del reato è già decorso prima che abbia inizio un procedimento penale (ciò avviene perché l’autorità giudiziaria non ha mai avuto notizia del reato o l’ha ricevuta troppo tardi quando ormai il reato era già prescritto o prossimo alla prescrizione, si pensi ai casi in cui la comunicazione di notizia di reato per uno dei reati tributari previsti dal D. L.vo n.74/00 viene inviata alla Procura della Repubblica competente in prossimità dello scadere del termine di cinque anni dall’Agenzia delle Entrate, che ha, appunto, cinque anni di tempo per effettuare gli accertamenti tributari in caso di evasione fiscale), la prescrizione del reato impedisce l’esercizio dell’azione penale e il procedimento stesso sarà archiviato.
- Viceversa, nel caso in cui il termine di prescrizione non sia già decorso prima dell’avvio del procedimento penale, il timer della prescrizione, messo in movimento il giorno in cui il reato è stato commesso, continua a decorrere durante il processo. In questo caso, come vedremo, il termine di prescrizione subisce un prolungamento.
La prescrizione nel codice penale
Orbene, l’istituto della prescrizione è disciplinata dagli artt. 157 e ss. del codice penale inseriti nel capo I rubricato “della estinzione del reato” del titolo VI: nel comma 1 dell’art.157 sono descritti gli effetti di tale istituto (“…la prescrizione estingue il reato…”), il criterio adottato dal legislatore per il calcolo del tempo necessario a prescrivere (“…decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge…”) e le due soglie minime e inderogabili di imprescrittibilità (“…e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorchè puniti con la sola pena pecuniaria…”).
Il comma 6 dell’art. 157 c.p. indica i reati per i quali il legislatore -i n considerazione della loro intrinseca gravità e del disvalore sociale che determinano – ha previsto tout court un raddoppio del termine di prescrizione.
Il comma 7 prevede la possibilità di rinuncia alla prescrizione, stante la facoltà concessa all’imputato di rinunciare in ogni momento alla prescrizione. Il comma 8 dello stesso articolo indica i reati imprescrittibili.
L’art. 158 c.p. individua il giorno dal quale inizia a decorre il termine della prescrizione (c.d. dies a quo). Tale termine varia in base al tipo di illecito: nei reati consumati il dies a quo decorre dal giorno in cui si assume sia stato commesso il fatto di reato; nel reato tentato coincide con quello di cessazione dell’attività del colpevole; nel delitto permanente (nonché in quello c.d. abituale) decorre dal giorno di cessazione della permanenza.
Invece, il termine finale entro il quale la prescrizione deve compiutamente maturare al fine di produrre il proprio effetto estintivo (c.d. dies ad quem) è stato individuato dalla giurisprudenza nel momento della lettura del dispositivo della sentenza di condanna (almeno sino al 31/12/19 con le precisazioni che indicherò), restando irrilevante il successivo periodo previsto per il deposito delle motivazioni.
Essendo un istituto proprio del diritto sostanziale, alla prescrizione si applicano tutte le garanzie proprie del diritto penale, quali il principio di legalità e il divieto di applicazione retroattiva della modifica normativa sfavorevole al reo.
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Sospensione e interruzione della prescrizione
Nel caso in cui il processo è già iniziato, esistono dei casi, tassativamente previsti dal legislatore (artt. 159 e 160 c.p.), di sospensione o interruzione della prescrizione, che di fatto possono allungare i termini della prescrizione stessa. E su tali istituti si sono concentrati gli sforzi del legislatore riformatore (cfr. infra).
- La sospensione si verifica in situazioni di obbligata inattività dell’autorità giudiziaria: ad esempio, quando è necessaria una autorizzazione a procedere, quando vi è un impedimento di una delle parti o dei difensori, quando il giudice sollevi una questione di legittimità costituzionale. La sospensione, in pratica, è una parentesi nel termine di prescrizione del reato: una volta venuta meno la causa di sospensione, la prescrizione riprende il suo corso e il tempo decorso prima del verificarsi della causa della sospensione si somma al tempo decorso dopo che tale causa è venuta meno. Di fatto, le circostanze che determinano la sospensione del processo ne comportano un allungamento della durata, ma non incidono sul termine di prescrizione del reato.
- Invece, l’interruzione della prescrizione dipende dal compimento di determinati atti dell’autorità giudiziaria, individuati dalla legge (ad esempio, l’interrogatorio dell’imputato, l’ordinanza che applica misure cautelari, la richiesta di rinvio a giudizio, il decreto che dispone il giudizio, e anche, fino al 31/12/19, prima della entrata in vigore della riforma Bonafede, la sentenza di condanna o il decreto di condanna, cfr. infra). La prescrizione interrotta ricomincia a decorrere dal giorno dell’interruzione, ma il termine di prescrizione del reato non può essere prolungato, di norma, oltre un quarto. Pertanto, in caso di atti interruttivi, la legge fissava un termine massimo al prolungamento della prescrizione del reato. Ciò significa che, quando il magistrato si attiva (per esempio, dispone il giudizio), un reato che si prescrive in otto anni (si pensi, ad esempio, alla ricettazione, punita con la reclusione da due a otto anni), si prescrive in dieci anni (otto anni + due anni, pari a un quarto, per effetto dell’interruzione).
Prolungamenti più consistenti del termine di prescrizione, in presenza di atti interruttivi, sono previsti per alcune categorie di autori di reato (ad esempio, per i recidivi) e per alcune figure di reato (ad esempio, per la corruzione e per altri delitti contro la pubblica amministrazione).
Tali istituti non hanno effetti sui reati imprescrittibili.
La prescrizione in Italia e in altri Paesi
Ciò posto, va detto che la prescrizione del reato, una volta iniziato il processo, è un’anomalia italiana. Diversa è la situazione negli ordinamenti degli altri paesi.
Da qui, e non solo, l’avvertita esigenza da parte di diverse forze politiche (ma anche di giuristi e operatori del diritto) delle riforme normative degli ultimi anni. Esigenza che non esaurisce il tema della crisi del processo penale.
In Spagna l’avvio del processo penale, attraverso la decisione motivata di un giudice che ritenga fondata l’accusa fatta dal pubblico ministero, interrompe per sempre la prescrizione impedendo che il reato si possa prescrivere (art. 132, comma 2 del codice penale spagnolo).
In Germania la prescrizione del reato termina definitivamente di decorrere dopo la sentenza di primo grado, sia che sia stata di condanna e sia di assoluzione (§ 78b, comma 3 del codice penale tedesco). Analoga è la situazione in Francia.
I paesi di common law non riconoscono la prescrizione: in Gran Bretagna è previsto semplicemente un limite temporale (variabile a seconda della gravità del reato) che deve essere rispettato per agire in giudizio, al fine di assicurare all’accusato un giusto processo.
Del pari negli Stati Uniti, l’avvenuto decorso del termine di prescrizione impedisce solo l’esercizio dell’azione penale, ma una volta esercitata l’azione penale nei termini di legge la questione della prescrizione non è più rilevante.
Lo stato dell’arte dei processi italiani
Tale essendo la situazione, avvertita l’esigenza di una seria modifica di tale istituto, il legislatore, prima con la cd. riforma Orlando, introdotta con la Legge n.103/17, e poi la cd. riforma Bonafede, approvata dalla Legge n.3/19, che ha abolito la prima, ha tentato di dare una risposta e offerto delle soluzioni. Pur considerando che circa la metà dei reati si prescrive nel corso delle indagini e prima del giudizio, entrambe le riforme suddette partivano dalla costatazione che – dopo l’instaurazione del giudizio – il grado di appello è quello più esposto al rischio della prescrizione del reato.
Nelle Corti di Appello la situazione è patologica: infatti, dalla disamina dei dati statistici (tenendo, comunque, in conto che trattasi di dati spesso disomogenei sul territorio nazionale, con punte di eccellenza e picchi critici), la più gran parte dei reati (pari al 24,2% dei procedimenti, quasi uno su quattro) si prescrive in secondo grado. In primo grado si prescrive circa l’8% dei processi, mentre in Cassazione si prescrive circa l’1,7 % dei procedimenti (in totale circa il 34 % dei reati, dato abbastanza costante in questi ultimi anni).
E’ noto, tuttavia, che in Italia la situazione degli uffici giudiziari è disomogenea: per motivi diversi (organizzativi, maggiore carico giudiziario, carenze di organico) in alcuni distretti, come quelli di Roma, Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro, Bari, si prescrive approssimativamente un reato su due: in queste sedi giudiziarie (che sono caratterizzate da un elevato numero di notizie di reato, spesso per fatti di notevole allarme sociale, e che scontano da anni carenze di organico del personale giudiziario) presentare appello comporta un’altissima probabilità di prescrizione del reato.
Ciò posto, per comprendere appieno lo stato patologico (quasi comatoso) in cui versa il paziente, si può riflettere su un dato, alquanto significativo, che viene dalla pratica giudiziaria: i reati che si prescrivono a processo in corso, soprattutto in alcuni grandi distretti (si pensi a Napoli e Roma, dove è stato registrato in alcuni anni il picco del 48 % di reati prescritti), sono quasi tutti dello stesso tipo (contravvenzioni, anche per fatti di per sé gravi e preoccupanti come quelli contro l’ambiente e il territorio, o delitti apparentemente non gravi puniti con pene detentive brevi), con esclusione, quindi, dei reati di fatto imprescrittibili o di maggiore allarme sociale quali quelli di criminalità organizzata o associativi o per fatti di sangue o estorsioni e rapine aggravate.
Da qui l’amara considerazione che gli autori delle contravvenzioni e dei delitti del primo tipo hanno la convinzione di vedere dichiarare estinto per prescrizione il reato commesso, il che si traduce in una sorta di senso di impunità, che li induce di fatto a optare per il dibattimento ed evitare il ricorso ai riti alternativi (che proprio per tali fattispecie di reato sono stati pensati) nonché a ingolfare le Corti di Appello e la Corte di Cassazione spesso con impugnazioni pretestuose o dilatorie: come pretendere che un imputato condannato preferisca non proporre appello o accedere a un rito alternativo come il patteggiamento? Il gigantismo processuale (nei numeri, anche paragonando la situazione italiana con quella degli ordinamenti di altri stati) ha effetti negativi e patologici -seppure con i distinguo sopra evidenziati- su tutti i gradi di giudizio e in tutti gli uffici giudiziari.
La riforma Orlando
Orbene, la riforma Orlando ha tentato di porre rimedio a questa situazione dando un anno e mezzo di tempo in più per celebrare il giudizio di appello. In sintesi, quella riforma prevedeva due eventuali e successivi periodi di sospensione della prescrizione in caso di doppia condanna, cioè dopo la condanna in primo e in secondo grado, ciascuno per un tempo non superiore a un anno e sei mesi.
Quindi, la riforma Orlando, per evitare la prescrizione del reato, concedeva ai giudici tre anni in più per arrivare a sentenza definitiva. Possibilità che non era prevista nell’ipotesi di proscioglimento dell’imputato o di annullamento della condanna per vizi procedurali, in appello o in Cassazione; in tal caso, nel computo del termine di prescrizione del reato, si doveva tenere conto anche del tempo in cui il processo rimaneva sospeso.
In altri termini, la riforma Orlando diversificava il termine di prescrizione del reato per gli assolti e per i condannati in appello, con seri dubbi di legittimità costituzionale (ed è questa, come diremo, una critica alla possibile modifica della riforma Bonafede, cfr. infra).
La riforma Bonafede
Ciò detto, il citato meccanismo in materia di prescrizione è stato operativo in Italia fino al 31 dicembre 2019, essendo entrata in vigore dal primo gennaio 2020 la c.d. riforma Bonafede, che ha abrogato la riforma Orlando. Anticipo che parlare di “abolizione della prescrizione” per effetto della suddetta riforma, come detto da qualcuno, è impreciso e riduttivo. Perché, se nell’intento del legislatore tale riforma aveva l’obiettivo di assicurare la ragionevole durata del processo ed evitare le distorsioni del sistema prima in vigore (nella metafora: guarire l’ammalato), la suddetta conclusione non convince.
In primis, perché già esistono, come detto, reati imprescrittibili; la prescrizione del reato, cioè, non opera per tutti i reati.
Ma se l’obiettivo principale di tale legge è quello di assicurare l’effettività della repressione penale e la certezza della pena, può dirsi raggiunto tale obiettivo? La cura è efficace e adeguata? Ma prima di rispondere a queste domande, vediamo cosa prevede questa riforma, da alcuni enunciata come epocale.
La nuova legge ha previsto l’anticipazione del dies ad quem della prescrizione del reato. Tale termine, dunque, non risulta più ancorato alla sentenza che definisce irrevocabilmente l’ultimo grado del giudizio. Essa ha, infatti, previsto l’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (o il decreto penale di condanna); e ciò, indipendentemente dal contenuto della sentenza, sia essa di condanna o di assoluzione. In pratica, ha reso impossibile la prescrizione nei giudizi di impugnazione, analogamente a quanto previsto in altri ordinamenti come quello tedesco.
In particolare, l’art. 1, comma 1, lett. e) della Legge n. 3/19 ha introdotto al secondo comma dell’art. 159 c.p. la seguente disposizione: “…il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna…”.
Dal punto di vista pratico ciò comporta che per tutti i fatti commessi dopo il 1° gennaio 2020 la prescrizione del reato non potrà più verificarsi nei giudizi di Appello e di Cassazione.
Quindi, la riforma Bonafede ha reso impossibile la prescrizione nei giudizi di impugnazione.
Gli obiettivi del legislatore, neanche tanto celati, erano: tagliare di circa il 25% i reati che si prescrivono ogni anno (corrispondente alla percentuale delle prescrizioni dopo il primo grado di giudizio); disincentivare gli atti di appello per finalità dilatorie (venendo meno la prospettiva della prescrizione del reato, i difensori hanno meno interesse a chiedere un secondo giudizio); incentivare i riti alternativi, vera soluzione per ridurre i tempi medi di definizione del processo penale.
La riforma Bonafede, che non incide sui (rectius: riduce i) tempi delle indagini preliminari, presenta profili positivi e negativi.
Per quanto riguarda il primo aspetto, sicuramente la suddetta riforma ha il merito di aver posto al centro del dibattito politico e scientifico il tema della lentezza e del mal funzionamento del processo penale, vera patologia del sistema.
Soprattutto, essa ha il merito evidente di limitare le possibilità di prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado.
Ma, a mio parere, tale riforma presenta delle criticità: innanzitutto, è intempestiva (è stata approvata prima ancora che sia stato possibile valutare gli effetti della riforma Orlando), essendo stata emanata a poco più di un anno di distanza dalla precedente riforma, e, dunque, prima di verificare gli effetti pratici di tale legge in materia di prescrizione
Inoltre, ciò che più conta è che essa non è accompagnata da riforme strutturali in grado di incidere davvero sulla durata del processo, offrire una cura efficace per combattere la patologia; non distingue tra prescrizione del reato e “prescrizione del processo”, non essendo stata seguita da interventi organici e di sistema a tutela della ragionevole durata del processo (di cui agli artt. 111 Cost. e 6 Cedu).
C’è il rischio concreto, da più parti denunciato, dell’eccessivo protrarsi e dall’inefficienza processuale dei gradi di giudizio successivi al primo, non essendo più i giudici di Appello e di Cassazione interessati ad accelerare il processo a causa della imprescrittibilità -innanzi a loro- dei reati. Qualcuno ha parlato di “processo senza fine”, con l’imputato troppo a lungo sub iudice. Difatti, è concretamente possibile un prolungamento medio della durata dei procedimenti penali, finendo per conseguire proprio quegli effetti che il legislatore riformatore voleva contrastare e impedire.
Anche se qualcuno sostiene che i giudizi di impugnazione potrebbero giovarsi di una riduzione delle impugnazioni stesse e di un maggiore ricorso ai riti alternativi.
La riforma della prescrizione: critiche e possibili rimedi
Essendo state sollevate da più parti tali critiche, è stata inserito nel disegno di legge sulla riforma del processo penale il c.d. “lodo Conte bis”. Tale provvedimento, presentato al Consiglio del Ministri il 13 febbraio 2020, è finalizzato a introdurre -mantenendo inalterato il nuovo dies ad quem della prescrizione adottato con la riforma Bonafede- un doppio binario tra imputati condannati e imputati assolti in primo grado.
Secondo tale modifica, la sospensione della prescrizione in primo grado si avrebbe soltanto nei casi di sentenza di condanna; in caso di assoluzione, invece, non si applicherebbe lo stop della prescrizione, i cui termini continuerebbero a decorrere normalmente (salvo il caso in cui la prescrizione scada entro un anno e il Pubblico Ministero appelli la sentenza).
Il punto critico e, per lo meno in via pratica, più complesso di tale ultimo intervento riformatore è rappresentato dalla necessità di un rimedio per tutti quei processi (per vero non pochi) nei quali i giudici di appello -riformando il giudizio di primo grado- assolvono l’imputato: in questi casi si prevede un sistema di ricalcolo capace di restituire a quest’ultimo il tempo di prescrizione perduto dalla data della sentenza di condanna di primo grado a quello di assoluzione in appello.
Ulteriore critica a tale progetto è che esso prevede una disparità di trattamento tra imputati assolti e imputati condannati, che potrebbe tradursi in una manifesta incostituzionalità della norma.
Ma anche a voler ammettere che il “lodo Conte bis” tenti di dare alla normativa sulla prescrizione una coerenza, provando a sanare -in sintonia con i principi fondamentali del nostro ordinamento- le criticità sorte con la riforma Bonafede, non altrettanto sembra potersi dire per quanto riguarda il vero problema della lunghezza dei giudizi successivi al primo grado, quale possibile, come detto, diretta conseguenza della citata riforma della prescrizione.
Tentando di dare delle risposte alle domande sopra evidenziate, a mio parere, modificare solo la disciplina della prescrizione non è sufficiente: come detto, il vero problema della giustizia penale è la lentezza del processo, la patologia del processo penale in Italia è la sua eccessiva durata; è necessario, quindi, porre mano a una seria e completa riforma del processo penale.
Si può – e si deve – pensare a una seria depenalizzazione, alla abolizione del divieto di reformatio in peius in appello, a un potenziamento dei riti alternativi, allo sviluppo dei processi di informatizzazione (si pensi al processo penale telematico e alle notifiche telematiche degli atti).
Con un doppio risultato: ridurre i tempi dei processi e abbattere il numero dei reati prescritti.
Questa è la terapia migliore per debellare la patologia e salvare il malato. La modifica della prescrizione è, dunque, rimedio idoneo, ma non sufficiente.
In effetti, è giunto il momento, e forse questa è l’occasione, per mettere mano a una vera e seria riforma del processo penale, rendendolo più rapido ed efficiente, nel rispetto dei principi del giusto processo, e in questo modo assicurare la sua ragionevole durata, in una ottica costituzionalmente orientata.
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