“Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli”.
Nella definizione di Italo Calvino risalta il rapporto che si instaura tra il testo classico e l’esperienza esistenziale del singolo lettore. Esiste, secondo Calvino, un momento particolarmente adatto per accostarsi a questa lettura, un momento in cui il lettore si trova “nelle condizioni migliori per gustarlo”; ma anche , aggiungiamo, per tornare ad essa, se è vero, come ancora dice lo scrittore, che ogni lettura di un classico è una rilettura.
In realtà, nel contesto del suo discorso, Calvino alludeva soprattutto all’età del lettore e al substrato di esperienza culturale che può consentire di comprendere più a fondo il testo, un’età in cui esso può parlare alla sua mente e al suo cuore diversamente da quella in cui le esperienze di lettura si consumano più rapidamente e superficialmente. Ma la sua definizione può essere senza eccessive forzature applicata anche a momenti contingenti, in cui la disposizione psicologica del lettore, o anche la sua condizione fisica o pratica, lo rendono più aperto ad accoglierne i messaggi e i significati.
Non è banale affermare che uno di questi momenti può essere quello attuale. E non nel senso superficiale, che spesso va circolando oggi, e che nella sostanza si può racchiudere nella formula: siamo costretti a stare a casa, approfittiamone almeno per leggere e migliorare le nostre conoscenze e il nostro bagaglio culturale; affermazione non priva di buon senso, ma che contiene in sé un ambiguo messaggio, quasi relegando la lettura e la cultura a ripiego, opzione alternativa e subordinata ad altri costumi di vita, a cui si deve momentaneamente rinunciare, a mero strumento di intrattenimento per chi non può svolgere la sua attività ordinaria (quale sovvertimento del rapporto tipico del mondo antico tra otium e negotium in quest’idea!).
Questo momento costituisce invece una “condizione migliore” di quella ordinaria per motivi più profondi. La pandemia che stiamo vivendo e subendo, infatti, ci proietta fuori di una illusoria visione dell’oggi come dimensione “assoluta”, diversa dalla realtà di ogni altro tempo nelle sue peculiarità, più felice perché più “avanzata”, più evoluta sul piano tecnologico e scientifico; un’illusione che, peraltro, già ben prima dell’epidemia, potevamo coltivare solo al prezzo di chiudere gli occhi sulle condizioni, cosi diverse dalle nostre, degli abitanti di gran parte del globo, e sul destino delle future generazioni, destinate a pagare i danni che il nostro sistema di vita provoca sull’ambiente.
L’ingresso imprevisto, in questo scenario solo apparentemente rassicurante, di un fattore che riesce a sconvolgere questo sistema di vita, smonta le nostre sicurezze, apre falle nella nostra economia, ci costringe a rinunciare al nostro ordinario modus vivendi, rivelando il carattere labile e contingente di quanto ci sembrava intrinseco alla nostra condizione di vita e al nostro tempo.
È cosí che l’uomo si sorprende la creatura di sempre, nella sua nudità e nella sua fragilità, e la stessa forzata riduzione della vita quotidiana a una dimensione cosí elementare, che sembra per certi versi riportarci a quella di una civiltà arcaica, ci mostra la nostra parentela con l’uomo antico, o meglio con l’uomo di sempre, spogliato della sua contingenza epocale.
Il ritorno ai classici in questo contesto vuol dire cosí recupero di una dimensione universale di humanitas, in cui riecheggia nel contempo l’elemento contingente che ne suggerisce la ri-lettura, quel “rumore di fondo”, di cui parla ancora Calvino, che pur essendo solo tale ne costituisce elemento imprescindibile.
Qualche esempio di possibile ri-lettura adatta a questo “tempo favorevole”?
Riprendiamo nelle mani l’Edipo re di Sofocle: rileggiamo le pagine della descrizione da parte del coro di una città gloriosa, improvvisamente prostrata da un male di cui non si conoscono le origini; la preghiera accorata dei cittadini al buon sovrano, perché li liberi dal flagello; la parabola del protagonista, il re giusto e illuminato che impara a scoprire la fragilità della sua condizione e la sua cecità intellettuale, che si trasformerà infine tragicamente in cecità fisica.
O, ancora della produzione di Sofocle, rileggiamo il Filottete, che ci parla dell’abbandono del debole, del malato, considerato ormai un peso inutile per la spedizione gloriosa contro Troia.
Quanti individui, soprattutto anziani e già ammalati, la società capitalistica sarebbe disposta a sacrificare all’altare dell’idolo della produzione a tutti i costi e dell’economia?
Ma è poi la via “giusta”, quella del sacrificio della vita individuale per il bene comune? e il bene comune può davvero fondarsi su questa logica?
Sofocle ci propone attraverso un mito già antico al suo tempo, una riflessione di ordine universale, parlando ai suoi concittadini come all’uomo del nostro tempo.
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