L’OBBLIGAZIONE
PARTE II
di Max Di Pirro
(segue)
4. La patrimonialità della prestazione. La prestazione dedotta in obbligazione deve rivestire natura patrimoniale (art. 1174 c.c.).
La sua valutazione economica può derivare da indici oggettivi o dalla volontà delle parti, quando vengano pattuiti un corrispettivo per la prestazione o una clausola penale per l’inadempimento.
Il requisito della patrimonialità della prestazione:
- consente di distinguere l’obbligazione da altri obblighi giuridici non economici (ad es., obblighi di natura familiare quali quelli di fedeltà e di collaborazione);
- pone un limite all’autonomia privata, nel senso che non sarebbero deducibili in un’obbligazione comportamenti privi di tale requisito.
La possibilità di valutazione economica non si ha soltanto se la prestazione abbia un intrinseco valore patrimoniale, ma anche quando lo riceva da una valutazione fatta dalle parti.
Pertanto, il requisito della patrimonialità della prestazione può essere inteso sia in senso oggettivo sia in senso soggettivo.
Da ciò deriva che anche la prestazione non avente carattere patrimoniale lo acquista se dedotta in un contratto come corrispettivo di una prestazione a carattere patrimoniale, poiché in tali casi la possibilità di valutazione economica della prestazione, di per sé non patrimoniale, è data dalla controprestazione di carattere patrimoniale che per essa sia stata convenuta; ciò in quanto, convenendo tale ultima controprestazione, le parti dimostrerebbero di voler attribuire all’altra un equivalente valore economico.
Ad esempio, la prestazione dell’attività sacerdotale (predicazione, celebrazione di messe, somministrazione di sacramenti), pur essendo di per sé priva di rilevanza patrimoniale, può costituire oggetto di un contratto di lavoro subordinato qualora, anziché avvenire in adempimento dei doveri connessi allo status di sacerdote o di religioso, nell’ambito dell’ordine di appartenenza e con intento di gratuità, sia svolta, continuativamente e in cambio di un corrispettivo, alle dipendenze di un terzo (ad esempio, una casa di cura privata).
La dottrina prevalente, tuttavia, afferma che la patrimonialità è esclusivamente un requisito oggettivo della prestazione, per cui il carattere della patrimonialità va riconosciuto solo alle prestazioni oggettivamente suscettibili di valutazione economica, mentre andrebbe negata a quelle che siano patrimoniali soltanto in base a una valutazione effettuata dagli interessati.
Inoltre, può riconoscersi la sussistenza di un rapporto patrimonialmente rilevante (art. 1174 c.c.), anche in presenza di un rapporto contrattuale atipico. Ad esempio, dal complesso delle caratteristiche riguardanti il contratto di sponsorizzazione non può desumersi che tale contratto debba necessariamente essere concluso da uno sponsor che sia egli stesso il produttore industriale di una determinata merce o il titolare del diritto di marchio da veicolare, ben potendo riconoscersi, sul piano civilistico, la sussistenza di un rapporto patrimonialmente rilevante, a norma dell’art. 1174 c.c., anche in presenza di un contratto atipico nel quale lo sponsor sia un altro soggetto che tragga comunque un’utilità dallo sfruttamento dell’immagine altrui, sebbene diverso risulti l’organizzatore della relativa produzione.
5. L’interesse del creditore. Sempre secondo l’art. 1174 c.c. la prestazione deve corrispondere a un interesse del creditore, anche di natura non patrimoniale (morale, affettiva, religiosa, ecc.).
Pertanto, nell’ambito dell’obbligazione rientrano anche le prestazioni economicamente valutabili sotto il profilo oggettivo che siano dirette a soddisfare bisogni culturali o morali del creditore (è il caso, ad es., dell’esibizione a pagamento del concertista).
L’interesse del creditore è un requisito indispensabile ai fini della valida costituzione del rapporto obbligatorio e della sua permanenza, per cui, se viene meno l’interesse del creditore originariamente presente, si estingue anche il vincolo obbligatorio.
L’interesse creditorio, quindi, è indispensabile sia per la costituzione sia per la persistenza del rapporto obbligatorio: la scomparsa dell’interesse comporta l’estinzione dell’obbligazione (è il caso, ad esempio, del creditore impossibilitato a ricevere la prestazione o dell’interesse che non può più essere soddisfatto mediante la prestazione dovuta).
Un’applicazione di questi principi si rinviene nell’art. 1256, co. 2, c.c., che prevede l’estinzione dell’obbligazione per impossibilità temporanea, dovuta a causa non imputabile al debitore, qualora il creditore perda l’interesse a conseguire la prestazione.
Parimenti, in caso di impossibilità sopravvenuta parziale, l’art. 1464 c.c. consente il recesso dal contratto al creditore, qualora egli non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.
Infine, in tema di risoluzione del contratto, gli artt. 1455 e 1457 c.c. collegano all’interesse del creditore l’importanza dell’inadempimento e la richiesta di adempimento, dopo la scadenza di un termine essenziale.
L’art. 1175 c.c. impone al debitore ed al creditore di comportarsi secondo le regole della correttezza: questa norma esprime la medesima regola contenuta nell’art. 1375 c.c., che richiede l’esecuzione del contratto secondo buona fede(26). Da questa norma generale è stata dedotta la figura dei doveri di protezione, gravanti su entrambe le parti del rapporto obbligatorio e diretti a salvaguardare ciascuna di esse da eventi lesivi: tra questi doveri figurano taluni obblighi di avviso, di segreto, di cooperazione.
6. Il contenuto della prestazione. La prestazione è il comportamento che il debitore deve porre in essere nei confronti del creditore; talvolta, però, con il termine prestazione si intende il profilo dell’attribuzione patrimoniale, che consegue a favore dell’acquirente nei contratti con effetto reale.
La dottrina suole dedurre dall’art. 1346 c.c., dettato per il contratto in generale, che la prestazione deve essere determinata o determinabile, possibile, lecita.
In base al contenuto della prestazione si elaborano alcune distinzioni.
Le obbligazioni di dare impongono al debitore di far acquistare al creditore un diritto, mediante la stipulazione di un atto traslativo solutorio. Nel sistema italiano questo tipo di obbligazione scaturisce dal contratto preliminare di vendita, dal mandato senza rappresentanza per l’acquisto di immobili o mobili registrati (artt. 1706 ss. c.c.), dal legato di cosa altrui o dell’onerato (art. 651 c.c.) e da numerose altre fattispecie. Il debitore di dare, fino all’atto traslativo, assume un ruolo fiduciario e resta proprietario nell’interesse del creditore (es., promittente acquirente, mandante, legatario): ciò provoca il fenomeno della dissociazione della proprietà, posto di recente all’attenzione della dottrina. L’obbligazione di dare può essere dedotta in contratto dai privati: essa coesiste quindi con il principio consensualistico accolto dall’art. 1376 c.c.
Le obbligazioni di fare, invece, comprendono ogni altra obbligazione con prestazione positiva del debitore, diversa dal trasferimento di un diritto. Rientrano in questa categoria sia le obbligazioni di consegnare beni mobili o di rilasciare beni immobili (artt. 1209, 1216 e 2930 c.c.), sia le obbligazioni di fare in senso stretto, aventi per oggetto l’esecuzione di opere od attività (artt. 1217 e 2931 c.c.).
Infine, nelle obbligazioni di non fare l’inerzia del debitore è di per sé idonea a soddisfare l’interesse del creditore: si pensi agli obblighi di non alienazione (art. 1379 c.c.) o di non concorrenza (art. 2301 c.c.), oppure agli obblighi di non costruire determinati manufatti in base alle regole sulle distanze tra costruzioni (art. 872 c.c.).
In dottrina si afferma talvolta l’autonomia teorica delle obbligazioni di garanzia, aventi ad oggetto l’assunzione di responsabilità: vengono indicati, quali esempi della categoria, la promessa del fatto del terzo (art. 1381 c.c.) e l’obbligazione fideiussoria.
6.1. La promessa del fatto del terzo. La questione del contenuto della prestazione si è posta in maniera problematica riguardo all’esatta identificazione del contenuto dell’obbligazione del promittente, nel contesto della vicenda regolata dall’art. 1381 c.c. (Promessa del fatto del terzo), il quale si limita a statuire che colui che ha promesso l’obbligazione o il fatto di un terzo è tenuto a indennizzare l’altro contraente, se il terzo rifiuta di obbligarsi o non compie il fatto proprio.
Secondo un primo orientamento, espresso soprattutto in giurisprudenza, dal contratto in esame sorge in capo al promittente un’obbligazione di facere consistente nell’adoperarsi affinché il terzo tenga il comportamento promesso.
L’inconciliabilità di tale impostazione con il regime di assoluta oggettività (mero accadimento dell’evento, rappresentato dal rifiuto del terzo) al quale l’art. 1381 c.c. condiziona il sorgere della pretesa indennitaria – il promittente non è liberato (ex art. 1218 c.c.) nonostante ogni cura e diligenza affinché il terzo assuma l’impegno – ha dato luogo a un’altra teoria, sostenuta prevalentemente in dottrina, secondo la quale l’obbligazione del promittente sarebbe di “procurare” il fatto altrui, con la conseguenza di ritenerla adempiuta solo se il risultato, oggetto della promessa, si sarà realizzato. In base a tale teoria il promittente sarebbe tenuto non solo ad un comportamento diligente, ad un adoperarsi, ma anche ad ottenere il fatto del terzo.
Tale tesi è stata contrastata per l’inconcepibilità di una prestazione di fare che abbia per oggetto un atto altrui, vale a dire qualcosa che non è nel potere di fatto del promittente.
Una terza teoria, al fine di superare le obiezioni sopra menzionate, annovera l’obbligazione del promittente nella categoria delle obbligazioni di garanzia in senso tecnico, che si distinguono per il fatto che la loro assunzione determina il passaggio sul debitore di un determinato rischio giuridico che altrimenti sarebbe tenuto a sopportare il creditore.
Un esame più aderente alla ratio e alla struttura della figura disciplinata dall’art. 1381 c.c. porta a ritenere che, con la promessa del fatto del terzo, il promittente assume una duplice obbligazione: una primaria di facere, consistente nell’adoperarsi affinché il terzo tenga il comportamento promesso per soddisfare l’interesse del promissario; e una successiva di dare, cioè di corrispondere l’indennizzo nel caso in cui, nonostante si sia adoperato, il terzo si rifiuti di impegnarsi. Ne consegue che qualora l’obbligazione di facere non venga adempiuta (e l’inesecuzione sia imputabile al promittente secondo i criteri comuni) ovvero venga eseguita in violazione dei doveri di correttezza e buona fede, il promissario avrà a disposizione gli ordinari rimedi contro l’inadempimento, quali la risoluzione del contratto, l’eccezione di inadempimento, l’azione di adempimento e, qualora sussista il nesso di causalità tra inadempimento ed evento dannoso, il risarcimento del danno. Solo se il promittente abbia adempiuto la prima obbligazione e, nonostante ciò, il promissario non ottenga il risultato sperato per rifiuto del terzo, diverrà attuale l’altra obbligazione di “dare”, in virtù della quale il promittente sarà tenuto a corrispondere l’indennizzo (Cass. 20-12-1995, n. 12973).
7. Obbligazione di mezzi e obbligazione di risultato. Una distinzione che in passato ha avuto grande credito è quella tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. Come insegna la definizione tradizionale:
a) nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde dall’esito positivo dell’attività del debitore, che adempie esattamente laddove svolga l’attività richiesta nel modo dovuto. In tali obbligazioni è il comportamento del debitore ad essere in obbligazione, nel senso che la diligenza è criterio determinativo del contenuto del vincolo, con l’ulteriore corollario che il risultato è caratterizzato dall’aleatorietà perché dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi. Le obbligazioni inerenti all’esercizio dell’attività professionale (medico, avvocato, ecc.) sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato ma non a conseguirlo. Pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall’art. 1176, co. 2, c.c., che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione. Sotto tale profilo, rientra ad esempio, nella ordinaria diligenza dell’avvocato il compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla particolare situazione di fatto, si presenti incerto il calcolo del termine;
b) nelle obbligazioni di risultato, invece, ciò che importa è il conseguimento del risultato, essendo indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo. La diligenza opera solo come parametro, ovvero come criterio di controllo e valutazione del comportamento del debitore: in altri termini, è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obbligazione.
La distinzione, se può avere una funzione descrittiva, è però dogmaticamente superata, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni.
In ogni obbligazione si richiede la compresenza del comportamento del debitore e del risultato, anche se in proporzione variabile, sicché molti autori criticano la distinzione poiché in ciascuna obbligazione assumono rilievo sia il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo sia l’impegno che il debitore deve porre per ottenerlo.
Sotto il profilo dell’onere della prova la distinzione (talvolta costruita con prevalente attenzione alla responsabilità dei professionisti intellettuali e dei medici in particolare) veniva utilizzata per sostenere che mentre nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombesse l’onere della prova che il mancato risultato era dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore incombeva l’onere della prova che il mancato risultato era dipeso da causa a lui non imputabile.
Ma anche sotto tale profilo la distinzione è stata sottoposta a revisione.
Infatti, Cass. S.U.. 13533/2001 ha affermato che il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale (in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie) è identico, sia che il creditore agisca per l’adempimento dell’obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che domandi il risarcimento per l’inadempimento contrattuale, ex art. 1218 c.c., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.
(segue)
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